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08/12/12

La Maschera della Morte (terzo episodio della serie L’Agente Segreto B-13) Albo di “Grandi Avventure” anno II n. 8, 1 Agosto 1946, edito da S.A.G.A. (via Dorotea 6, Roma), costo 15 lire-recensione di Luca Lorenzon




Gli statunitensi hanno il Secret Agent X-9 di Alex Raymond, noi italiani potevamo sfoggiare L’Agente Segreto B-13.



L’albo è in formato orizzontale, le dimensioni sono assimilabili all’odierno 17x24, ovviamente ruotato di 90 gradi. La foliazione comprende 16 pagine in bianco e nero interamente occupate dalla storia a fumetti più copertina e retro. La copertina è in quadricromia (e presenta un fuori registro), la quarta solo in tricromia mentre seconda e terza di copertina sono in bianco e nero. La storia precedente viene riassunta in seconda di copertina e pare alquanto complessa (vedi allegato 1), in seconda di copertina troviamo anche un annuncio ai lettori in merito ad un concorso che metteva in palio 500 lire dell’epoca: rassegnati al fatto che i ragazzi che hanno partecipato si sono limitati a copiare storie famose i redattori non hanno premiato nessuno e hanno consigliato ai partecipanti di proporre qualche fatto strano realmente capitato nella loro vita, in cerca di un minimo di originalità! La Maschera della Morte inizia ex abrupto con la visita del malvagio giapponese Ho Kusai (non desta tanto stupore il fatto che il nome è quasi lo stesso del celeberrimo artista quanto che nel riassunto veniva chiamato «Hokusoi») al pittore Giuliano per constringerlo a partecipare al suo piano: una volta introdotto nel penitenziario della Caienna [sic] dovrà impossessarsi di informazioni segrete e pericolosissime da un detenuto.



La storia procede quindi nel solco della tradizione esotico-avventurosa del fumetto dell’epoca, o meglio dell’epoca precedente di cui si cercavano di rinverdire i fasti. L’assunto è piuttosto inverosimile (un pittore che diventa agente di sorveglianza di un penitenziario sito in terra straniera?!) e anche il resto della storia è costellato dalle proverbiali ingenuità del periodo, prima fra tutte la rappresentazione stereotipata dei giapponesi come perfidi infingardi occasionalmente esperti di una non meglio precisata «lotta giapponese», oltre che fieri portatori di una dentatura spaventosa.

 

La storia procede in maniera lineare senza colpi di scena fino alla conclusione (che potrebbe essere la conclusione della intera serie) e forse anche a causa dello scarso spazio a disposizione la fortuna sembra favorire gli eroi laddove certe situazioni avrebbero richiesto qualche vignetta in più per arrivare allo stesso nodo della trama in maniera più credibile e meno meccanica (guarda caso, l’unica stanza libera in albergo è proprio quella vicina a chi deve essere spiato... la fermezza di Giuliano nell’impedire alla fidanzata di accompagnarlo si scioglie nell’arco di una vignetta...). Sempre a causa della breve durata dell’albetto, si fa un ampio uso delle didascalie per condensare con poche parole quello che non si aveva lo spazio per disegnare. Va però riconosciuta all’autore una prosa felice ed evocativa, che rende la lettura piacevole: «La vita dei forzati trascorre accompagnata da tre spaventose figure di arpie: la disperazione, la fatica e la noia». Occasionalmente nei dialoghi fa inoltre capolino qualche guizzo di ironia molto azzeccato: ad Ho Kusai che gli ha lanciato un coltello Giuliano risponde «I vostri biglietti da visita sono di acciaio temperato, a quel che sembra...».



Niente male il finale: nulla di particolarmente originale o interessante, ma la storia viene portata a compimento e anche il titolo ad effetto La Maschera della Morte viene giustificato (cosa per niente scontata nemmeno oggi!). Di sicuro l’Agente Segreto B-13 merita il suo appellativo: viene solo nominato nella seconda vignetta e non si vede per tutto l’albo! Curiosamente la cura editoriale lascia a desiderare e sono presenti errori grammaticali come «accuminato» e «quì», oltre a frequenti casi di parole mandate a capo in modo sbagliato. Sono inoltre evidenti i lavori di biacca per coprire qualche errore ortografico. Nella terza vignetta della prima pagina, poi, una “nuvoletta” è stata scambiata per una didascalia.

  

Questo è un errore che occasionalmente tornerà ancora nel corso della storia ma viene solitamente corretto con l’aggiunta di un filatterio che collega la “didascalia” al parlante; ci si accorge di questi interventi, oltre che per la posizione dei testi, anche perchè secondo il gusto dell’autore (o dell’editore) le didascalie vengono contenute in spazi geometrici regolari mentre i dialoghi in spazi frastagliati. Dal punto di vista dei disegni siamo a un livello inferiore rispetto ai testi. Vittorio Cossio (autore anche dei testi?) disegna delle masse ingombranti non sempre molto fedeli all’anatomia umana. Le scene d’azione sono statiche e i primi piani decisamente brutti, anche quando non devono rappresentare dei personaggi programmaticamente brutti (cioè i perfidi giapponesi). La sua vera “bestia nera” sono però i profili, in particolare le donne ne escono massacrate. Nell’uso modulato del pennello, per dare corpo alle figure o “colorare” le vignette, si può comunque ravvisare una parentela con lo stile di Galep.




La terza di copertina ospita la quarta puntata del «romanzo giallo» I Due Vagabondi ad opera di tal Giovanni Hierro. In fatto che inizi in media res mi ha dissuaso dalla lettura. In quarta di copertina vengono riassunti i titoli de Gli Albi di “Grandi Avventure” usciti e del prossimo in preparazione.



 Desta una certa perplessità il fatto che la collana offra «ogni dieci giorni un fascicolo»: allora La Maschera della Morte come fa ad essere appena l’ottavo del secondo anno se è datato agosto 1946? Dall’inizio dell’anno dovrebbero essere stati pubblicati già 20 o 21 numeri, 3 al mese fino a tutto luglio. Per completezza segnalo che la mia copia reca stampigliata in alto a destra la lettera “A” in inchiostro blu. Siccome copre parzialmente copertina e prezzo immagino sia stata aggiunta in seguito forse a indicare l’appartenenza ad un lotto o a un gruppo di resi (anche le altre copie che ho visto presentavano questa caratteristica). L’esemplare in mio possesso è conservato in condizioni tutto sommato buone, considerando la scarsa qualità della carta e il fatto che in tipografia venne spillato solo in alto e quindi era molto più suscettibile di rovinarsi sfaldandosi. Mi è stato regalato da un rigattiere che ne possiede più copie e che ormai è rassegnato al fatto che, nonostante Vittorio Cossio sia un nome legato al Friuli Venezia Giulia (ma meno noto del fratello Carlo, credo), sia invendibile pure dalle mie parti. Una supposizione un po’ maliziosa nata da alcune ricerche su internet: che la collana sia stata chiamata «gli albi di “Grandi Avventure”» per capitalizzare sul successo degli Albi di Grandi Avventure della Mondadori?