Logan è il personaggio perfetto.
Un passato oscuro che ogni sceneggiatore può ridefinire.
Un nano irsuto che il disegnatore può tratteggiare nel suo
stile personale senza che il character perda la propria identità.
Una versione violenta di Corto Maltese, un Popeye moderno
(per un periodo, quello secondo me migliore, era il guercio di Madripoor), uno
Zio Paperone Barksiano giovane e irruente nel Klondike, uno 007 lercio, un barbaro, un super eroe, un vigilante, un killer, un samurai, un uomo, un
mostro.
Wolverine può essere tutto, è questa la forza della migliore icona Marvel partorita
nei seventies, anche se il meglio della sua saga verrà prodotta negli anni
seguenti.
Il volume edito dalla Play Press è uno dei primi
esperimenti, dopo di quelli del periodo
Labor Comics e qualche speciale della benemerita Star, di dare “lustro da
libreria” alle avventure dei super uomini.
Nel mercato italiano non si era ancora compresa la levatura
artistica di quello che i comics americani di massimo consumo avevano raggiunto
persino nelle serie regolari, senza tirare in ballo le ormai inflazionate
Graphic Novel.
Qualcosa aveva intuito la Rizzoli che aveva iniziato ad
intercalare tra classiconi, capolavori e
scemenze autoriali qualche storia o inserto dei personaggi D.C. ma l'avvento
degli hypergeek nazionali esperti dell’universo in spandex era ancora lontano.
La miniserie scritta da un prolisso Claremont e disegnata da
un acerbo Miller sembra un action della Cannon Group oppure un film di Ninja con
i baffoni biondi di Godfrey Ho.
E’ la prima, tra le tante venute dopo e che hanno
inflazionato il personaggio, ad analizzare la psicologia complessa di un eroe
per caso, un essere umano travolto dalla sua vita dolorosa e travagliata,
mutante non solo nei geni ma anche nei sentimenti e le reazioni.
La ricerca d’equilibrio di uno sbandato alla Jack Kerouac che
si ritroverà ad essere un futuro Vendicatore.
Forse per il canadese sarebbe stata migliore una “posizione
di mezzo”, quelle ombre notturne che nascondono un Punisher o un Moon Knight.
Questa avventura giapponese è un racconto formativo e sembra
quasi di vedere l’ultimo samurai di Edward Zwick, prima la mancanza di comprensione dello stile di vita orientale e poi la
ricerca spasmodica dell’onore.
Claremont ha un modo di scrivere che ormai appare obsoleto,
troppo didascalico e descrittivo, Miller ha un tratto a volte fastidioso con tanti
alti e bassi ma forse la colpa è delle “vecchie” chine di Josef
Rubinstein.
Nel complesso non ci troviamo di fronte ad un capolavoro ma di sicuro è una lettura sostanziosa e ben costruita.
Consigliato e mi pare che si trovi anche a poco.